diari di cineclubVia dal prodotto
Domenica scorsa, 17 settembre, sono andato come sempre al Multiplex di Porte di Roma perché alle 11,00 di mattina c’era una proiezione Autism Friendly per i bambini nello spettro autistico. La prima della nuova stagione.
Nelle precedenti occasioni la partecipazione era stata piuttosto scarsa ma era maggio e il fatto che questo tipo di offerta è ancora del tutto nuova in Italia, mi spingeva a pensare che servisse un periodo di adattamento per avvicinare le famiglie a questa esperienza. Spesso totalmente inedita per loro.
In effetti al mio arrivo, 15 minuti circa prima del film, c’era soltanto una coppia con due bambini, uno dei quali affetto da autismo. Nel giro di quel quarto d’ora la sala si è rapidamente vivificata e sono arrivate circa 10 famiglie con i loro figli, alcuni dei quali con autismo.
Sono stati momenti di gioia per tutti, perché tutti insieme avevamo raggiunto un obiettivo di condivisione che andava ben oltre la visione del film che stava per cominciare. Eravamo tutti in un luogo che non ci appariva più una sala cinematografica. Il significato di trovarci lì aveva oltrepassato di gran lunga quello classico dell’arrivo in un cinema ed era così evidente e percepito da tutti che l’atmosfera è diventata subito densa di quella complicità serena e vivace tipica della partenza per le vacanze.Forse è proprio il senso del viaggio che a me, come ad altri, rimane impresso dopo un’esperienza come questa. Intendiamoci, nulla di così straordinario se rapportato a un titolo, a un cinema o a una gita domenicale, ma è proprio questo il rapporto che domenica mattina è saltato, trasportando i protagonisti in una dimensione corposa e ricca di prospettive. Una dimensione in cui il progetto incontra un’esigenza condivisa, che è anche desiderio, che è anche diritto e da questo incontro si snoda il prosieguo di un percorso. Di un processo che si chiama produzione e fruizione culturale e che non è un prodotto né un luogo e nemmeno un evento, ma una grande, universale esperienza collettiva grazie alla quale cresce la sana socialità per tutti, nessuno escluso.

Questo viaggio, o meglio, la partenza vivace e giocosa per questo viaggio, è un concetto dal quale ci siamo allontanati da molti anni in modo costante e progressivo, perché ci hanno inculcato che non serve un viaggio per afferrare l’oggetto da consumare. Il punto di arrivo di questo incessante scivolare nel baratro del mercato è che noi stessi diventiamo soltanto prodotto e non realizziamo altro che prodotti.

Lo siamo nei centri commerciali, sedi consuete dei multiplex (guarda caso), così come manifestiamo di esserlo negli incontri con gli assessori (che così diventano dei padreterni) e nelle riunioni delle associazioni (che riproducono tutti i vizi della peggiore politica), solo per fare qualche esempio. Trattative di piccoli poteri, soldi, confezioni, promesse, in un’autoreferenzialità da un tanto al chilo. E invidie, competizione, egoismi. A salvarci arriva il mi piace di Facebook. Qualche volta il commento esaltatorio, più raramente la condivisione. Ma attenti: la condivisione è quella di un attimo. Quella col click.

È un treno apparentemente impazzito, che pur restando immobile, mostra dai finestrini scene che si accavallano senza soluzione di continuità, e noi restiamo paralizzati, ipnotizzati e impotenti a rincoglionirci di prodotto fatto passare perfino, a volte, per cultura. Nessun viaggio su quel treno se non quello che come dovrebbe apparirci ormai evidente, conduce verso un ponte smembrato.

Questo scenario potrebbe sembrare una divagazione catastrofica che poco ha a che fare con l’esperienza in una sala cinematografica ma quello che è successo domenica scorsa, così come quanto accade in altri casi poco noti nel nostro malandato paese, dimostra l’esistenza di dimensioni che sfuggono alla regola perversa del treno verso il baratro. Persone che s’incontrano in un percorso comune e ne condividono il fluire, diventano i reali protagonisti di un progetto che riconduce l’esperienza al suo valore originario, quello cioè del processo collettivo che permette a una comunità di rafforzarsi e di crescere.

Se quel luogo e quel film hanno in apparenza perso il loro significato convenzionale, hanno nello stesso tempo rigenerato il senso primario di quell’esperienza, offrendo ai protagonisti la prospettiva del progetto da costruire insieme, lontano dai giochi dei piccoli poteri e dalla schiavitù del prodotto come simbolo del traguardo da raggiungere o in cui riconoscersi.

La nostra società ha fame e sete di progetti culturali che ci restituiscano l’emozione di percepire una partenza per una vacanza non virtuale. Sono i progetti che possono nascere soltanto nei quartieri delle città, nei piccoli centri della provincia e in tutti i luoghi in cui si può fare comunità. Quindi dappertutto.

Finché si resterà inermi nella centralità del prodotto, il piccolo cinema che ne può proporre poco non avrà scampo nella sfida con il grande cinema che ne può vendere tanto. Dai palazzi si potrà anche concedere un tax credit o qualche altro stravagante sostegno ma a che serve una sovvenzione se non esiste un progetto comune, ambizioso e che sappia guardare lontano?

Occorre stare vicini in uno stare accanto che non riguarda una categoria, ma che appartiene ai nostri territori e alle persone che ci vivono. Gli spazi che possiamo riconquistare, sia fisici che intellettuali e culturali, diventeranno immensi laboratori permanenti in cui mettere in piedi architetture complesse e diversificate, fatte di identità e di solidarietà. Questo e non altri è il terreno buono per coltivare quel processo infinito e vitale che si chiama cultura.

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